CHIESA MADRE SAN LUCA ABATE

Chiesa Madre

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Descrizione

CHIESA MADRE DI SAN LUCA ABATE Prima dei restauri settecenteschi di questo edificio ecclesiastico si hanno poche testimonianze: nel 1606 il cardinale, commendatario del monastero dei santi Elia e Anastasio, Paolo Emilio Santoro ordinò il finanziamento dei lavori di messa in sicurezza del campanile, come si evince dall’iscrizione lapidea conservata, ora, nella vicina cappella della Madonna degli Angeli e, un tempo, affissa proprio sotto al campanile. Nel 1783 – ricorda il recente studio di Francesco Buglione, dal quale questa sintesi attinge “a piene mani” – quando la gestione amministrativa del monastero passò al Regio Fisco e Ferdinando IV restituì al cenobio (abolendo la commenda) l’antica organizzazione, la chiesa madre fu restaurata «e posta in bello con plastici Lavori di stucco dal 1784 al 1790 a spese del Re sulle rendite che allora percipiva da’ beni della Commenda devoluti al Demanio Regio, cosicché nella facciata esteriore dell’Orchestra si dipinse lo Stemma Reale, che nel 1799, fù rimpiazzato dallo stemma del Comune, perché i rivoluzionarj di quel tempo volevano far dipingere lo stemma republicano»; così risulta da documenti d’archivio riportati nel già menzionato lavoro di ricerca svolto da Francesco Buglione. Lo Spena, nella sua opera del 1831 e nella successiva rivisitazione del 1859, descrisse con dovizia di particolari la morfologia dell’intera struttura chiesastica a seguito dei lavori di ristrutturazione, che determinarono una significativa trasformazione degli interni arricchiti di preziosi lavori in stucco di cui, purtroppo, attualmente rimane poco. Altra testimonianza che si evidenzia dalle fonti risale al marzo del 1853 quando, nella nottata tra i giorni 16 e 17, crollò il campanile. La chiesa madre si presenta ancora oggi a tre navate, procedendo dall’ingresso verso l’interno si possono ammirare: sulla controsoffittatura della navata centrale il Ratto d’Elia (santo patrono di Carbone) e sui controsoffitti delle navate di destra e di sinistra, rispettivamente, i dipinti che ritraggono i santi Bartolomeo, Giovanni Crisostomo e Nilo, da un lato; Vincenzo, Gregorio e Anastasio, dall’altro. Entrando, sulla sinistra, si può apprezzare l’acquasantiera a fusto in pietra arenaria datata 1559: la vasca ha un diametro di 90 cm ed era utilizzata, fino alla fine degli anni Cinquanta del Novecento, come fonte battesimale. Parallelamente, sulla destra, è adagiata una seconda acquasantiera datata 1581, che risente di motivi decorativi tipicamente seicenteschi, quali le zampe leonine sulla base, la foglia d’acanto sul fusto e il rilievo appiattito da baccellatura. LE DUE NAVATE LATERALI Procedendo verso l’interno, lungo la navata di destra, sono disposti tre altari, prima degli ultimi lavori di restauro (anni Novanta del Novecento) se ne contavano quattro, essendo coperto l’affresco della Dormitio Virginis riemerso proprio in seguito a questi ultimi; in questo spazio era collocato l’altare dell’Immacolata. Il primo altare che si incontra lungo la navata di destra è dedicato a sant’Elia e ospita l’importante tela raffigurante il santo sul carro: l’autore del dipinto potrebbe essere Bernardino Cesari, fratello del famoso Cavalier d’Arpino. Tuttavia, questa resta solo un’ipotesi che merita lavori di approfondimento. Ai lati dell’altare di sant’Elia sono alloggiate due statue, a destra sant’Agnese (in gesso) e a sinistra san Luigi Gonzaga (in cartapesta). Accanto si può ammirare l’affresco della Dormitio Virginis: opera, probabilmente, di un maestro attivo nell’ambito napoletano nella seconda metà del Cinquecento. E’ ritratto il momento del trapasso della Vergine e la sua assunzione. Si può osservare Maria che si addormenta tra gli angeli. La festa della dormizione in Oriente è molto antica, mentre nel culto latino si è affermata più tardi. Il dogma è stato ufficializzato solo nel 1950 da Papa Pio XII, che raccolse il sentimento di fede già da secoli diffuso anche nella cultura latina, istituzionalizzando quella che si può considerare come una vera e propria “teologia del popolo”. A fianco non casualmente si trova la tela dell’Assunta: il dipinto raffigura Maria mentre viene assunta in cielo alla presenza degli apostoli, che nella parte bassa si assiepano davanti alla tomba vuota. Non è possibile stabilire la paternità dell’opera, che spetta probabilmente ad un pittore locale ma, grazie a un’iscrizione sul retro, sappiamo che l’opera fu eseguita nel 1778 su commissione del sacerdote Gennaro Innecco. Subito dopo si incontra l’altare di santa Maria Egiziaca che accoglie la statua lignea – scrive Antonio Appella – abbondantemente ritoccata e datata alla prima metà del XVIII sec., di bottega lucana, rappresenta la donna frontale, coi capelli sciolti, che scendono sugli abiti essenziali, mentre fissa il crocifisso posto nella mano sinistra, a ricordo della sua conversione durante la venerazione della Santa Croce a Gerusalemme, mentre con la destra sorregge un panno su cui sono i pani che la alimentarono miracolosamente per diversi anni. Al di sotto della statua si conserva gelosamente il reliquiario a cassetta indorato, dovuto alla sistemazione di Paolo Emilio Santoro che ne solennizzò il culto caduto ormai in dimenticanza, presenta le preziose reliquie della santa eremita assai venerata in Oriente. Si può ancora leggere l’incipit della breve iscrizione incisa sulla cassa reliquiario: «In hac capsula ossa s(anctae) Mariae Aegyptiacae». Infine, muovendosi lungo la navata di destra, si può apprezzare l’altare che ospita il santo protettore della comunità carbonese: san Donato vescovo di Arezzo, implorato contro i morbi epilettici, con la sua mirabile statua settecentesca. Anche in questo caso, il recente studio (portato avanti da Antonio Appella e Francesco Buglione) ha contribuito a focalizzarne meglio la figura. La devozione e il patronato sono cresciuti nel tempo a partire dalla prima venerazione dovuta agli Osservanti che nella chiesa del convento dell’Annunziata eressero, tra i vari altari, quello dedicato al santo con una statua. Essa si presenta, oggi, nel suo realismo espressivo dopo il restauro del 2016. In legno di castagno, rappresenta il santo con i tipici abiti e insegne episcopali, mitria in tessuto e baculo. Sul camice bianco la stola con racemi rossilinei che richiamano quelli identici lungo i bordi del piviale aperto all’altezza del petto sul quale il santo posa la mano destra. Una statua “in movimento” per la torsione del busto che evidenzia, in un atteggiamento estatico rafforzato dallo sguardo in alto, il santo consegnatoci dalla tradizione agiografica come liberatore di ossessi ed epilettici. La resa anatomica realistica continua sul volto emaciato e rasato, con le guance rosse, e le venature sporgenti, su collo, tempie e mani. La mitria, a differenza del resto della statua, non è scolpita, è mobile e realizzata in tessuto con ricami vegetali e floreali in oro e con croce raggiata sul fronte. Ai lati dell’altare maggiore si trovano due nicchie, quella di destra accoglie la statua dell’abate san Luca, a cui la chiesa stessa è intitolata. La scultura, datata al XVIII secolo, si presenta intagliata in legno e mostra il santo in solenni paramenti: la mitria abbaziale, il camice e un ricco piviale rosso a fiori con panneggio; con la sinistra regge il volume sacro, fondamento della vita sua e della comunità, mentre con la destra impugna il baculo. La statua, fortemente ritoccata in epoche recenti, presenta ridipinture che ne complicano l’esame ma che non offuscano alcuni particolari del volto come lo sguardo intenso, la bocca aperta, la delicata fibula che tiene, legati sul petto, i due capi del piviale, resa come una placca rettangolare, e il panneggio dello stesso camice. Nella nicchia ricavata sul lato sinistro, invece, è ospitata la statua di san Gerardo vescovo di Potenza e originario di Piacenza. Come ricorda il prezioso studio di Antonio Appella: evidenti sono le tracce del forte culto che il santo vescovo potentino aveva a Carbone con una preziosa reliquia, conservata nella parrocchia, con il cartiglio «S(ancti) Gerardi ep(iscopi) Potent(iae)» e una cappella intra moenia a lui dedicata, menzionata dalle fonti del XVIII secolo (Catasto Onciario). Da questa cappella dedicata al santo che, quasi sicuramente, proviene la statua lignea intagliata, decorata con pittura e doratura, e datata tra fine XVI e inizi XVII secolo, in posizione frontale, benedicente, con una espressione rigida ma straordinaria, come rivela la resa realistica dello sguardo e della bocca, colto nel momento dell’annuncio, espressione alta del munus docendi, qualificato dal libro in mano e dalla benedizione con la mano nel modo latino. Ai lati del presbiterio furono ricavate ulteriori due nicchie. Su quella di destra è alloggiato il busto reliquiario di san Giovanni l’Elemosiniere. Esso è citato nella Platea del 1741 «in capite Argenteo in Busto aeneo», capo argenteo e busto bronzeo; nel 1809 descritto nella nicchia di stucco della chiesa del monastero, in «cornu evangelii: la testa di san Giovanni Elemosinario, vestita di argento, ed il mezzo busto di rami indorato, con vetrata, e panno di seta avanti». Lo si ritrova descritto brevemente in un elenco del 1930 stilato dall’arciprete Arena: «Teschio di S. Giovanni Elemosiniere chiuso in teca d’argento a forma di testa». La reliquia del santo patriarca di Alessandria, il cui corpo è presente a Venezia sin dal 1249, metteva in stretto legame Carbone con l’Oriente. Attualmente presenta, nonostante le pesanti mutilazioni della parte inferiore, il capo del santo con dorso e spalle rivestiti di una pianeta, con decorazioni di croci greche iscritte in cornici circolari, con un pallio guarnito di tre grandi croci latine. L’opera, solo recentemente riconsiderata, rivela, soprattutto nella resa artistica del volto, l’alto livello di produzione sia per l’evidente realismo sia per l’accuratezza dei tratti anatomici, in particolare quelli del collo, leggermente reclinato, dei capelli, della barba, ma anche delle rughe e dello sguardo rivolto verso l’alto, espressione fortemente spirituale che rende ancora più immediata la presenza del santo attraverso la reliquia. La nicchia posta sul versante sinistro del presbiterio, invece, ospita il mezzobusto del santo vescovo di Bari, Nicola. Purtroppo la statua lignea che, con molta probabilità, proveniva dalla cappella intitolata a san Nicola di Bari andò perduta a causa dell’incuria del tempo e si distrusse materialmente nel 1959, così come risulta dalle testimonianze orali. Dunque, a san Nicola di Bari era dedicata un’apposita cappella, come evidenzia la relazione del sindaco Pietrantonio Padula, insieme a quelle di san Gerardo, di san Sebastiano e di sant’Anna. Essa, come si evince dal Catasto Onciario del XVIII secolo, possedeva animali caprini ed esigeva censi e tra le uscite era previsto il pagamento a un sacerdote della chiesa parrocchiale. Essa appare, nei documenti, come una delle più care alla comunità: il giorno 8 dicembre 1843 la Commissione di Beneficenza locale, convocata dal sindaco, si riunisce per trattare di tale cappella «in questo abitato» seriamente in pericolo statico. La relazione sottolinea la bellezza della cappella ma anche la centralità del culto verso il santo da parte dei carbonesi: «questa popolazione oltre all’essere divota con tutti i Santi, osserva un veridico e pieno culto verso San Nicola, sito in locale che riattato forma il preggio di questo paese. Non bisogna quindi dar causa al popolo di abbandonare quelle divozioni, che tanto sono dovute al Santo in parola». In quella data viene ordinata una perizia approfondita e la costituzione di una commissione, in modo da salvare il santuario «non solo per la grandezza ma per la fervida divozione degli abitanti» sotto il regio arciprete don Giacomo de Nigris. Lungo la navata sinistra, spostandosi dall’ingresso verso l’interno, sono disposti quattro altari. Il primo è l’imponente e importante altare che ospita la statua in cartapesta della Madonna del Carmine con anime purganti. Sul secondo altare, invece, è affissa la tela della Sacra Famiglia con il Padre Eterno del pittore calabrese Francesco Oliva, uno dei protagonisti della pittura sacra in Basilicata nella seconda metà del Settecento. Il dipinto rivela il carattere delicato e devozionale dello stile del maestro, evidente soprattutto nella Madonna che depone Gesù nella mangiatoia al lume di notte, mentre una maggiore energia si coglie nel Padre Eterno, che giunge dall’alto circondato da vivaci testine di angioletti. A fianco è posto il terzo altare sul quale è adagiata la statua novecentesca che ritrae la Madonna Addolorata. Essa viene attribuita nell’ambito della vasta bottega meridionale del XX secolo ed è realizzata in cartapesta modellata-dipinta. Ai piedi dell’altare, invece, si può osservare la statua di Gesù Cristo morto in gesso. Infine, nel quarto ed ultimo altare della navata sinistra della chiesa madre è alloggiata la statua moderna di San Giuseppe.

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