CONVENTO FRANCESCANO E CHIESA DELL’ANNUNZIATA

CONVENTO FRANCESCANO E CHIESA DELL’ANNUNZIATA

La Chiesa dell'Annunziata

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Descrizione

LA CHIESA DELL’ANNUNZIATA

Ai frati – come ricorda il recente studio di Antonio Appella – la comunità carbonese si impegnava di versare una quota annua di dodici ducati con un impegno straordinario per questa fondazione letto come riappacificazione verso l’ordine francescano dopo l’eresia dei cosiddetti “Fraticelli”.

Scrive Francesco Buglione: la storia del convento francescano di Carbone iniziò con dodici frati dell’Ordine «de’ Padri Zoccolanti». Nel refettorio furono poi dipinti i ritratti dei monaci che più si erano distinti nella provincia e per ognuno di essi don Gerardo Rocchi senior, ricordato come giureconsulto e poeta nel XVIII sec., aveva composto una quartina; altre sue quartine erano riprodotte nelle pitture dei corridoi al pian terreno.

Nel 1777, «dovendosi per magior servizio di Dio modernare, e Rifare lo stucco dell’intiera Chiesa di detto Convento», il Sindaco Apostolico Lucantonio Giordano commissionò a Mastro Vincenzo Tepedini di Padula, «Professore di tall’arte», i lavori dopo aver visionato col padre guardiano il progetto che poneva «in disegno la maniera come deve venire» non solo l’interno della chiesa «ma anche il Coro della medesima coll’istess’ordine d’Architettura, cornicione, e finimenti come pure l’altare magiore […] con Lavori di stucco non meno nell’avant’altare del medesimo, ma eziando in tutti gl’altri altari di essa Chiesa, porte, e finestre della medesima, e suo pulpito, ed organo». Questi lavori che, almeno nelle stime, dovevano protrarsi dal 20 maggio alla fine dell’anno, richiesero una somma di 100 ducati più la concessione di vitto e alloggio a mastro Vincenzo e ai suoi discepoli. Somme di cui frati votati alla povertà potevano disporre soltanto grazie alle elemosine e alle cospicue elargizioni delle famiglie più abbienti del paese che così, se già non ne erano in possesso, si assicurarono lo jus patronatus sugli altari minori tanto da potervi apporre il proprio stemma. Marcello Spena scriveva che questi lavori furono dovuti «alla cura di padre Angiolantonio di Graco (o Craco?) lettor Teologo». E’ molto probabile che questi fosse il guardiano citato nel documento del 1777 ma non è da escludere che il padre fosse un artista proveniente da un altro luogo: infatti così si chiamava il guardiano del convento di Aieta.

Si ha una descrizione dell’aspetto che essa aveva nel 1808 dall’inventario redatto per la soppressione che fu poi messa in atto soltanto nel 1866. Sul presbiterio, nelle nicchie ai lati dell’altare maggiore, ai cui capi si trovavano le statue in cartapesta di santa Lucia e santa Barbara, era stato posto il gruppo scultoreo della titolare: l’Arcangelo Gabriele, a sinistra, e l’Annunziata, a destra dove attualmente si trova in una nuova configurazione. Entrando in chiesa, sul lato destro della navata si incontravano gli altari con le statue di: san Pasquale Baylon, patronato della famiglia Giordano, il cui stemma è ancora visibile all’apice della nicchia; santa Rosa di Viterbo, patronato della famiglia Spena riconosciuto erroneamente ai Molfese nell’inventario che, invece, possedevano quello su san Donato, come dimostrava la presenza del loro stemma sul paliotto; sant’Antonio di Padova patronato della famiglia Castelli. Sul lato sinistro della navata si trovavano: l’altare con la statua del fondatore dell’Ordine, san Francesco d’Assisi che la tradizione vuole portata da Costantinopoli dal chierico Giuseppe Folgarini, in una cappella facente corpo a parte sulla cui volta era dipinto il Sacrificio di Isacco e nella quale si trovavano ancora «quattro quadri, cioè due tondi con cornici indorate, rappresentanti uno S. Gennaro Martire, l’altro il di lui Sangue, altro dell’addolorata, e l’ultimo dell’Ecce Homo, effigiati sopra Cristallo», e poi gli altari con le tele della Porziuncola magistralmente dipinta da Francesco Oliva di Tursi, dell’Assunzione di Maria, fatta realizzare dal sacerdote don Gennaro Innecco nel 1778, e san Luca «di buon autore», patronato della famiglia Mazza. In epoca recente, queste tele sono state spostate per aprire delle nuove semplici nicchie, prive dei decori in stucco che presentano le altre, per alloggiare delle altre statue tra cui l’Immacolata che nel 1808 era «posta nella nicchia di legno indorato di buona mano» davanti all’altare maggiore. Questa nicchia doveva essere quella «Cappella ò sia Cona d’intaglio dorato della gloriosa S. Rosa» da spostare dalla navata, che si stava ammodernando con gli stucchi, nel coro per ornare l’altare dell’Immacolata Concezione. L’opera, arricchita da un prezioso frascheggio, era stata realizzata da Pasquale Cappellano senior così come quella di santa Francesco. Oltre alla statua dell’Immacolata esisteva anche una tela in sagrestia. Qui si trovavano anche le tele dell’Addolorata, della Nascita, di san Michele Arcangelo, di san Leonardo Abate, di sant’Antonio di Padova, e il quadro su tavola di santa Maria Maddalena. Nel Coro, invece, sono annoverate le tele della Sepoltura di Cristo, probabile commissione della famiglia De Mitolo, del Battesimo di Gesù, di san Vito Martire, altre due tele dell’Addolorata e quattro medaglioni affrescati con gli evangelisti; gli stalli erano «intieramente di noce, e Castagna, con un stipo, e disco sopra colla Salmista, graduale ed antifonario, tutte, e tre, usati, da moltissimo tempo». Purtroppo, con i lavori eseguiti dopo del terremoto del 1980, la navata fu privata di tutti gli altari gentilizi, e siccome tutti gli stemmi, ad eccezione di quello dei Giordano, furono apposti sui paliotti, è, ormai, possibile ammirarli soltanto sulle foto dell’Archivio della Soprintendenza. Il diverso trattamento riservato ai Giordano – continua nel suo saggio Francesco Buglione – è chiaramente dovuto al ruolo di Sindaco Apostolico che Lucantonio rivestiva all’epoca dei restauri, tanto che il suo stemma fu posto di fronte a quello francescano un tempo affisso in corrispondenza della chiave di volta dell’arco d’ingresso alla cappella di S. Francesco. Si noti, inoltre, che, per esigenze stilistiche dovute al nuovo disegno, un grande arco simmetrico a quello della cappella di fronte incornicia quest’altare gentilizio. A riprova del forte legame di questa famiglia col monastero, si può addurre anche la tragica notizia dell’uccisione di Biagiantonio, figlio di Lucantonio, avvenuta il 4 settembre 1809. Egli, non volendosi allontanare da Carbone, come il resto dei suoi concittadini, per sfuggire ai briganti che per la seconda volta assediavano il paese, si rifugiò nel convento ma fu poi preso e trucidato a coltellate ai piedi della croce in pietra antistante lo stesso. 



LA CAPPELLA DI SAN FRANCESCO D’ASSISI


L’edificio si presenta a navata unica, ma nel tardo Settecento, verosimilmente a seguito dei lavori intrapresi nel 1777, fu aggiunta, alla sinistra dell’ingresso una cappella laterale, tutta dedicata a san Francesco, dove è conservata l’imponente e suggestiva statua lignea del santo d’Assisi. L’opera è protetta dalle vetrine di una teca dal telaio in legno e sulla quale compare la data di realizzazione: l’anno 1860. Si può, invece, far risalire la “costruzione” della statua alla prima metà del 1700, un’incisione sul retro del manufatto sottolinea un intervento di restauro datato al 1799. Nell’opera dell’arcivescovo di Urbino, Paolo Emilio Santoro, Storia del monastero di Carbone nell’edizione dello Spena del 1859, si legge che la statua di san Francesco è «di eccellente scoltura di incerto autore e che vuolsi venuta da Costantinopoli, per divozione del letterato Giuseppe Felgariai chierico Carbonese, che soffrì le dure catene de’ Turchi in Costantinopoli ove fu condotto da’ pirati che lo catturarono […]».

Come sottolinea il recente studio di Anja Sospetti: san Francesco è in posizione stante, proteso verso il crocifisso che sorregge e solleva con entrambe le mani, il capo, leggermente reclinato a sinistra, segue quello stesso movimento. Egli com-patisce con il Cristo fino al sacrificio estremo. Il santo veste un saio scuro che termina all’altezza dei piedi, i quali poggiano, nudi, su un basamento costituito da un parallelepipedo in legno dalla superficie superiore dipinta di verde, un accenno alla natura e metafora del Creato che Francesco ha celebrato nel Cantico delle Creature, segno di contemplazione dell’Altissimo. Le mani di san Francesco sono attraversate dalle stigmate, proprio al centro, un taglio che vive e che emerge dal chiarore della pelle e dalla compostezza del movimento.

Nella cappella di san Francesco sono conservate anche numerose tele, come sottolinea il recente lavoro di studio e di ricerca condotto da Odette D’Albo, che ha contribuito a delineare un’accurata visione d’insieme delle opere pittoriche carbonesi a cavallo tra il Cinquecento e l’Ottocento. Tra queste si può certamente ammirare l’Immacolata con san Francesco e sant’Antonio da Padova, databile tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, oggetto di un restauro piuttosto invasivo, che ha risarcito gran parte delle lacune ma al contempo non permette di leggere la stesura pittorica originale. Grazie all’iscrizione posta sul retro della tela, si evidenzia, invece, con maggiore certezza, che la Deposizione con i santi Giovanni, Maddalena, san Luca abate e Apollonia, risale al terzo decennio del Seicento, ma la qualità piuttosto mediocre, unita allo stato di conservazione precario, non consente ulteriori approfondimenti.

A Giovanni de Gregorio detto il Pietrafesa, uno dei maestri più noti e meglio conosciuti della pittura lucana tra la fine del Cinquecento e la prima metà del secolo successivo, è da riferire l’intenso san Vito martire attestato in antico nel coro del convento. Il volto dall’espressione malinconica e dai grandi occhi rivolti verso lo spettatore, le pieghe accartocciate del manto, i chiaroscuri netti e profondi mettono in luce le caratteristiche tipiche del repertorio del de Gregorio.

La fattura molto modesta e una verosimile analoga datazione accomuna, le cimase degli altari laterali, probabilmente riconducibili ai restauri di fine Settecento, ad altre due opere di formato simile ma di maggiori dimensioni, conservate nella cappella di san Francesco, raffiguranti santa Maria Egiziaca e la stessa santa in atto di ricevere la comunione da Zosimo.

Di dubbia provenienza, infine, perché non attestato in nessuno degli inventari finora ritrovati, è il tondo raffigurante san Francesco da Paola, attribuito di recente a Salvatore Ferrari da Rivello.

Sempre alla fase tardo settecentesca della decorazione, perduta a seguito dei ripetuti terremoti attestati a metà Ottocento, è possibile legare gli ovali con i santi Carlo Borromeo, Giovanni Battista, Giuseppe, Leonardo, Vito e Caterina d’Alessandria che ornavano, allora come oggi, le cimase degli altari laterali.



GLI ALTARI LATERALI: LATO DESTRO


Nella prima nicchia a destra rispetto all’ingresso è alloggiata la statua di santa Caterina di Alessandria. In origine, la statua della santa si trovava in una cappella sita in località «Montechiaro», in rovina già agli inizi del secolo XIX. Come scrive Francesco Buglione, la cappella di santa Caterina d’Alessandria a Montechiaro fu voluta dal commendatario Giulio Antonio Santoro in ricordo di quella esistente prima dell’incendio del 1432. Rovinò al suolo in seguito al terremoto del 20 novembre 1836 ma la statua che vi si venerava fu salvata e posta sull’altare eretto nel 1837 «per pubblico voto» all’interno della chiesa di san Luca Abate con somme elargite dall’arciprete don Giacomo de’ Nigris e di sua zia, così si legge dallo Spena. Solo recentemente, la statua è stata traslocata nella chiesa del convento.

Tale scultura – scrive Francesco De Marco – è databile al XVII secolo. La santa è posta in posizione rigidamente frontale, con le braccia aperte. Indossa una veste azzurra stretta in vita e decorata con motivi floreali. Il manto rosso, appoggiato sul braccio destro, avvolge la vita e le gambe, sviluppandosi in un ampio panneggio arricchito da fitte pieghe. La statua lignea di Carbone è un esempio importante della scultura lignea del Seicento di tradizione lucana: la rigida frontalità, l’essenzialità compositiva e il carattere ieratico dell’immagine, percepibile soprattutto nel viso, permettono di porre questa scultura in relazione con esempi tardo-cinquecenteschi. Tuttavia, è pienamente seicentesca l’ampia trattazione del panneggio, soprattutto del manto rosso. L’ignoto scultore volle dotare di molti attributi la figura di santa Caterina: oltre alla classica ruota, qui scolpita nella sua interezza, la santa sostiene un libro nella mano sinistra, mentre il braccio destro è teso verso l’osservatore; probabilmente nella mano destra la santa stringeva la palma, simbolo di martirio, o la spada, classico attributo identificativo di santa Caterina di Alessandria.

Nella nicchia del secondo altare, sempre sulla destra entrando in chiesa, si può osservare la traccia più antica di decorazione: un affresco raffigurante la Maddalena, la cui datazione è probabilmente da collocare tra la fine del Cinquecento e l’inizio del secolo seguente.

Nella terza nicchia, invece, si può apprezzare una raffinata statua che raffigura santa Rosa da Viterbo, datata alla prima metà del XVIII secolo. Essa va identificata – scrive Antonio Appella – con quella posta in una nicchia di stucco dell’altare patronato della famiglia Spena, da cui fu restaurata nel 1849 come ricorda l’iscrizione alla base. Una santa cara all’ordine francescano e proposta al culto dei fedeli per la sua vita breve ma intensa, nel primo scorcio del XIII secolo, per carità, coinvolgimento sociale, penitenza, predicazione, fedeltà alla Chiesa, esperienza mistica. L’iconografia della santa è quella diffusa in epoca barocca, grazie anche alla ricca produzione di sue biografie: tra il 1618 e il 1772 vengono edite ben 12 biografie, oltre a cinque oratori, tra cui la prima in volgare di Pietro Coretini (1638) e quella di frate Antonio Coherez (1681).

Nell’incisione che correda l’opera del Coretini (1968), la santa indossa l’abito delle terziarie francescane, abito legato alla risistemazione del corpo della santa nei primi anni del Seicento, e regge la croce e un mazzo di fiori (attributi iconografici già a partire dal XV secolo col polittico viterbese di Francesco Antonio detto il Balletta). Fiori che non sono presenti nella statua lignea carbonese, in cui l’autore ignoto ha voluto sottolineare l’aspetto penitenziale della santa: è la giovane con il Crocifisso che indica con la mano destra, descritta dalle biografie camminare, “cum cruce in manibus” per Viterbo predicando la pacificazione sociale, la croce è stata riferita alla visione del Crocifisso e, forse, alla predicazione della santa per le vie della città. Essa sembra colta nel movimento dei piedi (il sinistro sollevato) e del corpo intero (con il ricco panneggio del saio, del velo e del soggolo), nella tensione del volto e nell’indice teso al Cristo crocifisso: fervore e passione. L’abito da terziaria francescana, che la santa abbracciò dopo che fu rifiutata dalle suore di santa Chiara nella sua città.

Il forte culto della santa nel territorio lucano, conclude sempre Antonio Appella, attraverso la capillare diffusione dei conventi francescani, lascia accostare la statua di Carbone ai modelli simili, pure di XVIII secolo, presenti a Rotondella, Moliterno ed Orsoleo.



GLI ALTARI LATERALI: LATO SINISTRO


All’interno della seconda nicchia, successiva a quella nella cappella dedicata a san Francesco, lungo gli altari posti sul lato sinistro dell’edificio è accolta la statua lignea dell’Immacolata databile al XVIII secolo – scrive Anja Sospetti – per confronto con opere simili di artisti che, a quel tempo, operavano a Napoli e in Puglia. La Vergine, in posizione stante, poggia i piedi sul globo terrestre, il volto è sollevato, i lineamenti sono delicati e minuti, lo sguardo pensoso, estatico, il pallore dell’incarnato è interrotto dal rosso delle guance che donano dolcezza ai lineamenti. Lunghi capelli castani scendono ondulati fino all’altezza del petto, il capo di Maria è protetto da un panno color avorio, intorno la corona di dodici stelle. Gli abiti sono riccamente panneggiati, la tunica chiara che avvolge il corpo dell’Immacolata è decorata con motivi floreali, al di sopra una mantella porpora aperta sul davanti e, infine, l’ampio manto azzurro avvolge con un pesante drappeggio il lato destro di Maria mentre scende più leggero sull’altro lato. La semplificazione compositiva, l’assenza della corona regale abbattono la distanza tra umano e divino, le tinte virano verso toni caldi accendendo l’immagine di intimità, di una grazia soffusa e vicina all’umanità dei fedeli, “la donna vestita di sole” si fa donna tra gli uomini avvicinandosi così alla spiritualità francescana e permettendo agli uomini di avvicinarsi a Lei con fiducia.

Di fianco all’Immacolata si osserva la statua di san Pasquale Baylon vestito del saio in atteggiamento estatico contemplante con tanta meraviglia l’apparizione dell’Eucarestia. La figura – scrive Francesco Buglione – con le braccia aperte in piedi rivolta verso destra dove la presenza di un perno attesta la mancanza dell’ostensorio, suo attributo; difficile dire se questo fosse sorretto da un putto oppure no. La gamba destra in tensione funge da asse alla rotazione del corpo, sorreggendone il peso, la sinistra è rilassata. Delicata è la grande aureola. Il cordone rustico, non più bianco, con i tre nodi simbolo dei voti dei frati: obbedienza, castità e povertà. Il piede sinistro privo di calzatura. Tale statua lignea, di modeste dimensioni, in origine era posta sul primo altare a sinistra la cui nicchia è, di fatti, più adatta alle sue dimensioni. La pittura dell’ultimo restauro poco si confà ad una statua che per analisi stilistica è stata datata alla seconda metà del Seicento. Il culto di questo mistico spagnolo, autore tra l’altro di uno scritto sulla transustanziazione di pane e vino in Corpo e Sangue di Cristo nell’epoca in cui dilagante era il protestantesimo, si diffuse particolarmente durante la dominazione aragonese nel Regno di Napoli. Viene acclamato protettore delle donne, soprattutto quelle in cerca di marito – conclude Francesco Buglione.

Nell’ultima nicchia, infine, è collocata la statua di sant’Antonio di Padova. Il santo taumaturgo, uno dei più venerati tra i santi francescani, non poteva certamente mancare nel santorale della piccola comunità degli Osservanti a Carbone – scrive Antonio Appella. Al santo venne eretto, infatti, un altare ricordato nel 1808: «nicchia di stucco colla statua del Santo indorato, coverta di amoverro torchino», tutto corredato di tovaglie, candelieri e legato alla famiglia Castelli a cui fa riferimento anche una lapide.

La statua lignea che lo raffigura datata alla prima metà del XVIII secolo e attribuita a una bottega lucana, è caratterizzata da una evidente rigidità, si esprime così il santo ieratico e stante, con lo sguardo frontale e diretto al fedele osservatore, con l’abito francescano, ricoperto dai devoti con la cotta artigianale e votiva a ricordare il sacerdozio, e con gli attributi tradizionali espressi sin dai primi scritti agiografici come Assidua, Benignitas e Rigaldina e soprattutto nel più tardo Liber miraculorum: il libro (la sua sapienza e la sua predicazione), il giglio (la sua purezza) e il Bambino Gesù (l’evento miracoloso ricevuto), dei quali gli ultimi non sembrano originari. Di certo la statua ha subito forti ritocchi avvenuti nel corso del tempo, quando il culto del santo, a partire dal convento dell’Annunziata, si affermò sempre di più tra i fedeli, ma si riesce ancora a notare il volto giovanile e l’intensità dello sguardo.

Appena più avanti, davvero notevole, come messo in luce sin dalle ricerche di Anna Grelle, è l’imponente Visione di san Francesco alla Porziuncola di Francesco Oliva (olio su tela), un tempo su uno degli altari laterali e oggi sul presbiterio al lato destro dell’altare maggiore.

Infine, tra i pezzi di maggiore rilievo artistico si deve annoverare, senza ombra di dubbio alcuno, anche la meravigliosa statua lignea dell’Annunziata, posta sul presbiterio al lato sinistro dell’altare maggiore. Come scrive Antonio Appella, nel 1808, tra le statue della chiesa francescana di Carbone, si mettevano in risalto quelle del gruppo dell’Annunciazione: «Lateralmente si veggono due statue nella nicchia, una cioè dell’Annunciata e l’altra dell’angiolo Gabriele coverta di tela di Persia». Soggetto artistico assai diffuso che contempla il mistero centrale dell’annuncio, terribile e potente, della nascita di Cristo a Maria e della sua incarnazione nel suo seno, come narrato nel vangelo di Luca (Lc 1, 26-38). Il gruppo scultoreo ligneo, nella sua straordinaria bellezza e originalità, è strettamente legato alla stessa intitolazione conventuale, fondata, come già detto, nel 1548 in contrada Lo Casale dalla signora Aurelia Perpeta, probabilmente presso una cappella legata già al culto della Vergine Annunziata: la statua, dunque, potrebbe essere coeva o più probabilmente successiva a quella fondazione.

Le reazioni, tradite dalla gestualità, e le ricche vesti sono impresse nel legno attraverso il fine intaglio, l’armonica doratura, restituendo alla apparente semplicità espressiva una solennità manifesta come nel trattamento della capigliatura raccolta, a indicare ordine, compostezza, gioia, e nella solenne l’impostazione corporea, realisticamente “scomposta”. L’arcangelo Gabriele incede poggiando i piedi su una nube, rivestito da una lorica e con calzari militari, mentre il volto è incorniciato da riccioli. A Carbone non porta, come al solito, un giglio, simbolo di purezza, ma una tuba o tromba, attributo che denota l’annuncio divino decisivo, come per gli angeli dell’Apocalisse. Gabriele appare, infatti, come un tubicen, soldato romano pronto ad impartire l’ordine del suo soprastante al suono della tuba, lo strumento a tubo lungo e sottile con apertura finale a imbuto, sorretto nella sinistra.

La Vergine appare inginocchiata, avvolta in una lunga tunica, a maniche lunghe e a fondo rosso, con racemi vegetali e una cintura dorati. Su di un considerevole inginocchiatoio a volute, appare in atto di accogliere e accettare, con la mano destra tesa in alto verso l’angelo a cui rivolge il suo sguardo, in un movimento che porta a far cadere il mantello dalla spalla lasciandolo appeso al braccio sinistro: Maria è colta nella sorpresa e nel turbamento iniziale di fronte alle parole del messaggero celeste. Pure nell’ampio mantello scomposto la Vergine rimane ferma, col busto eretto. Infatti, le mani e il volto assorto rivelano l’ascolto di Maria, la capacità di accogliere quelle parole ma anche il turbamento e lo stupore, le sue domande di senso (Lc 1, 29), decisività nel rispondere. L’opera evidenzia la grandezza di Maria: «Mia madre e miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica» (Lc 8,21) – conclude Antonio Appella.

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